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L'arte di ascoltare i battiti del cuore

«Non crede nell’amore, Julia?» 
Jan-Philipp Sendker, "L'arte di ascoltare i battiti del cuore", BEAT

No. Julia (laureata, con madre americana e padre birmano) non è incline a crederci. Non in quella sordida bettola, dove si è trascinata alla ricerca del genitore scomparso, dall’altra parte del mondo. Credeva nel principe azzurro, ma sa ormai che non esiste. Quel birmano poverissimo e precocemente rugoso, con le sue “chiacchiere”, sta esaurendo la sua pazienza. Eppure, lei continua ad ascoltare.

«Naturalmente non parlo di quella passione che crediamo eterna, che ci fa fare e dire cose di cui poi ci pentiremo, che ci fa credere di non poter vivere senza una certa persona e tremare al pensiero di perderla. Non parlo di quel sentimento che ci rende più poveri - non più ricchi - perché ci porta a desiderare ciò che non possiamo possedere, e ci spinge ad aggrapparci a ciò che non possiamo trattenere. Non parlo nemmeno del desiderio di un corpo o dell’amore per se stessi, quel parassita che tanto spesso indossa la maschera dell’amore disinteressato.            Parlo dell’amore che dà la vista ai ciechi. Che è più forte dell’angoscia. Dell’amore che infonde un senso alla vita, che non obbedisce alle leggi del degrado e della rovina, che ci fa crescere e non conosce confini. Parlo del trionfo dell’uomo sull’egoismo e sulla morte.»

Con queste pagine, comincia L’arte di ascoltare i battiti del cuore, romanzo di Jan-Philipp Sendker (2017, BEAT, 32^ edizione). Seguendo il racconto del birmano, Julia entra finalmente nella vita del padre, che aveva troppo facilmente creduto di conoscere. La sua vita si chiamava Mi Mi; era una ragazza che il destino lo aveva costretto a lasciare nel Paese d’origine. Una fanciulla deliziosa a dispetto d’ogni cosa, persino della sua congenita impossibilità di camminare.
            Tin Win (così si chiamava il padre di Julia) l’aveva conosciuta prima dell’operazione che cancellò la sua cecità. Abbandonato perché “bambino della sfortuna”, secondo una predizione astrologica, entrò poi in un monastero buddhista.

            “Il vecchio [l’astrologo consultato dai genitori di Tin Win] guardò la tavola, che per lui conteneva tutti i misteri dell’universo. Era il libro della vita e della morte, il libro dell’amore. Avrebbe potuto riferire ai genitori tutto ciò che vedeva. Avrebbe potuto parlare delle straordinarie capacità che il bambino avrebbe sviluppato, della magia e della forza imponente che si celava in quella creatura, e del dono dell’amore. Ma vide che Mya Mya non l’ascoltava e che Khin Maung non avrebbe capito.” (p. 65)

            Quel “figlio della malasorte” sviluppò davvero un talento straordinario. Era cieco; ma il suo udito finissimo gli svelava ciò che per gli altri era invisibile. Gli svelava l’ape nel calice del fiore, il ragno sotto la trave. Gli svelò il cuore di Mi Mi, che batteva sommesso, poco più in alto del suolo…
            Il lume degli occhi, restituitogli da uno zio pieno di buone intenzioni egoistiche, non compensò il ricco mondo di suoni in cui era abituato a vivere. Anche se gli fece comprendere molte cose: per esempio, che il battito del cuore non distingue le etnie. La luce ritrovata gli servì soprattutto a una cosa: a scrivere interminabili lettere a Mi Mi.
            E non furono nemmeno quelle (censurate dallo zio) a colmare la distanza forzata fra loro. Così come non fu sufficiente il matrimonio (poco convinto) di Tin Win in America a rompere il legame. L’amore, quando merita questo nome, richiama sempre gli esseri umani al loro destino. Poco importa che il richiamo sembri fioco, come il battito di un cuore. È fioco solo per le orecchie che non sanno sentirlo, o che lo scambiano col rumore dei propri desideri frustrati. L’amore è la magia di due esseri che, insieme, camminano senza inciampare, unendo le loro opposte debolezze.


            “A ogni movimento lui le donava un nuovo corpo, nessuna forza al mondo poteva trattenerla, si vide volare su Kalaw, sui boschi, le montagne e le valli, da una vetta all’altra. La terra diventò una pallina su cui Rangoon e Kalaw e tutte le altre città erano distanti non più di un dito l’una dall’altra. Senza demoni né fantasmi. Avevano perso ogni controllo. Tutti i sentimenti esplosero insieme, la rabbia, la paura, la disperazione, il desiderio, la tenerezza e la voglia struggente che avevano l’uno dell’altra. E per un istante, il tempo di uno o due battiti, tutto nella loro vita ebbe un senso.” (p. 211)

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