Passa ai contenuti principali

Anime perdute


Quando Antonio, Norma ed Enrico si erano incontrati all’ombra delle torri, avevano un sottile bagaglio di esperienze in band musicali alle scuole superiori – e di miraggi lunari, nelle anime acerbe. I primi due erano coetanei e compagni di corso, appena immatricolati a Lettere. Enrico aveva un paio d’anni in più, un diploma da perito elettronico e un futuro da ingegnere. Erano uniti da un feticismo per gli Evanescence, Carl Orff e l’electro-medieval. Nella placidità accademica di Pavia, il loro poteva figurare come un singolare incontro d’anime. Ma quel capriccio di poesia non passò mai per la loro mente, ancorata alle sessioni d’esame, agli affitti e alle spese.
            Enrico aveva conosciuto Antonio quando questi aveva tentato, sul cellulare, quel numero affisso alle bacheche dell’università. Il più vecchio aveva così accettato di dividere l’appartamento con lui. Fuori dall’orario di lezione, erano una coppia fissa e insolita: Antonio alto, ossuto, con lunghe dita da pianista e una chioma color rame; Enrico vasto di petto e spalle, dagli arti nerboruti e dalla barba bruna perennemente sfatta. In comune avevano gli abiti scuri, come per un interiore funerale. A volte, il guardaroba di Enrico restituiva anche magliette con nomi di band quali Nightwish, QNTAL o Dark Sanctuary.
            Poi, fra l’azzurro mattutino del cielo e il rosso ferrigno delle torri di piazza Leonardo da Vinci, Antonio aveva introdotto Norma. Enrico aveva soppesato quella miniatura dalle carni d’alabastro, con occhi da Madama Butterfly tracciati dalla matita e il busto disegnato da un corsetto nero. Una frangia tinta di mogano le ombreggiava le iridi di cristallo celeste. Sulle labbra infantili, aleggiava un sorriso da Gioconda, ma velato di triste sogno. Enrico aveva stretto nella propria mano nodosa quella – serica e fragile – che lei gli porgeva. «Piacere!» aveva mormorato quel sorriso, con una melodia ovattata.
            Era nata così l’idea.

  *   *   *

Antonio guardava il profilo di Norma, teso verso la cattedra ancora vuota. Erano stretti nella cavea dell’Aula VII, che andava riempiendosi di studenti; i ripiani risicati dei banchi già reggevano astucci e quaderni ad anelli.
      La ragazza aveva appoggiato il gomito e si era retta il capo. Un ninnolo argenteo penzolante dal suo polso aveva attratto l’attenzione di Antonio. Un braccialetto da cui pendeva un motivo a tre raggi ricurvi.
«Cos’è?»
«Una triskele» aveva risposto Norma. Un bagliore di gioia aveva sfiorato il suo volto. «È un simbolo solare tipico dei Galli Cenomani».
      Antonio aveva risposto al sorriso. Fra i lembi della camicia, un senso di frescura sulla pelle gli aveva ricordato la croce latina che portava al collo.

  *   *   *

Dai propri cimeli di adolescenza, recuperarono una chitarra elettrica, un basso e una tastiera. La batteria fu fornita da Gigi, il dirimpettaio di Antonio ed Enrico. Occasionalmente, a loro si sarebbe aggiunta Ada, un’amica di Norma, che suonava l’arpa. Di batteristi ne avrebbero cambiato più d’uno, nel corso degli anni d’università. Cosicché, il nerbo del gruppo sarebbero rimasti loro tre – e sarebbe stato giustificato il nome di “Tria Fata”.
      Il loro genere musicale si sarebbe potuto ricondurre al metal, ma velava di sonorità melodiose e malinconiche le profusioni d’oscura energia.
      Ad Antonio era spettata la chitarra; ad Enrico il basso, oltre a ogni consulenza in ambito tecnico. Il canto e la tastiera erano di Norma. Aveva una voce stupefacente – limpida, ardente e selvaggia come un violino. Aveva studiato canto in un convento di monache, prima di avviarsi per una spiritualità indipendente. Nelle sue corde vocali, vibrava il misticismo del canto gregoriano, insieme a un grido dolente e carnale che saliva dal fondo. Con le dita che cercavano febbrilmente le note, Antonio si era spesso sorpreso a sudare freddo, ascoltandola durante le prove.
      Dei tre, Enrico era apparentemente il meno sensibile a questi voli d’irrazionalismo. La sua musica era fatta di volumi da regolare, effetti acustici da calcolare, guasti da riparare. Lasciava volentieri a Norma e Antonio la parte creativa; essi lo ricambiavano con muta gratitudine, mescolando Bibbia e riti misterici nei testi che azzardavano in inglese.
      Verso la ragazza, quell’orso del bassista non dimostrava più che una benevolenza da schivo fratello maggiore. Aveva assentito senza batter ciglio al suggerimento di lei per il nome del gruppo: « “Tria Fata”, come le tre Parche che filano il destino… e lo cantano».
Antonio guardava a lei con un misto d’invidia e reverenza, per la silenziosa fonte di creazione che palpitava in lei – come una reliquia nel corpo d’una Madonna Nera. Nessuno dei due ragazzi l’avrebbe detto apertamente, ma Norma era la Musa del gruppo.

  *   *   *

Un giorno, Enrico arrivò annunciando d’aver contattato uno studio di registrazione. Il gruppo partorì così il primo CD, custodito da una magra busta in cartoncino. Vi campeggiava il nome di “TRIA FATA”, con le due parole separate da una triskele – per suggerimento di Antonio. Avevano intitolato la raccolta Lost Souls, perché in nessun altro modo avrebbero saputo descrivere il proprio posto in quel mondo di feste studentesche, chiostri profani e appunti fotocopiati.
      Sulla busta del CD, era riportata una fotografia in bianco e nero, per la quale essi stessi avevano posato. Sullo sfondo, il biancore osseo della chiesa di S. Michele Maggiore. In primo piano, loro cinque: Gigi, Antonio, Norma, Enrico, Ada, in fascianti abiti da lutto, con gli sguardi a terra e tenendosi per mano. Norma era in testa al gruppo, come una deliziosa cariatide in abito simil-medievale.

  *   *   *

«Norma!»
La ragazza si voltò. Un sorriso la animò.
«Scusa, Antonio… Non ti ho aspettato…»
«Tranquilla!» appianò lui, con un lume sul volto punteggiato di efelidi. Negli occhi grigi, vibrava un sentore di febbre.
«Dovevi dirmi qualcosa?» riprese lei.
«Niente in particolare…» nicchiò il ragazzo. Si accorse di una lapide particolarmente vasta, fra le tante accolte nel chiostro dell’ateneo. Il suo bassorilievo rappresentava una figura maschile in palandrana.
«Chissà chi è…» mormorò Antonio.
«Oh, non ho capito benissimo l’iscrizione latina…» rispose Norma. «Dev’essere la commemorazione di un francese che venne a studiare a Pavia all’inizio del XVI secolo… e che qui morì».
Si guardarono, con l’ombra del chiostro distesa sui loro volti.
      Antonio avvertì il petto dell’altra sfiorare il suo. Il contatto gli strappò un soffio di dolore, da un punto del cuore che credeva cicatrizzato.

  *   *   *

Da quel primo colloquio di corpi – e da quelli meno timidi che seguirono – nacquero i testi per il secondo CD: Intense, Carnal… Almost Transcendent. Erano aumentate le parti per tastiera e arpa, ma anche gli interventi della voce baritonale – quella di Enrico. Antonio ascoltava l’amico eseguire compitamente l’interpretazione dei suoi sentimenti ed era stupito della sua esattezza. Soltanto un fondo d’amaro la connotava.

  *   *   *

Salì le scale in pietra e si fermò su un pianerottolo lillipuziano. Si frugò in tasca e rinvenne le chiavi, con cui aprì la porticina d’ingresso.
Entrato, buttò la borsa degli appunti sul divanetto e si guardò intorno. L’angolo cottura era lindo e deserto. Dalla camera da letto, usciva un aroma intenso e cristallino. Incenso giapponese.
      «Enrico?»
Al suo richiamo, risposero i rintocchi vibranti di una campana tibetana. Poco dopo, Enrico emerse sulla soglia della camera.
«Scusa, Antonio… Stavo meditando».
Il coinquilino gli sorrise: «Mi dispiace d’averti disturbato».
L’altro fece spallucce: «Figurati!»
«Comunque, quella tua campana è deliziosa» riprese Antonio. «Potremmo inserirla in un nostro brano?»
Enrico aggrottò la fronte: «Mmh… Sarebbe difficile incastrarla fra la batteria e gli strumenti elettrici… Ma potrebbe andar bene per un’introduzione o conclusione, chissà…»
Mosse qualche passo, come a sgranchire completamente le gambe dalla posizione del loto.
      Antonio si sedette sul divanetto. Un nembo gli pesava sulla fronte.
«Come mai sei tornato così tardi dalle lezioni?» lo interrogò l’amico.
Il ragazzo arrossì: «Oh, ecco… sono passato un attimo da Norma».
Enrico lo fissò con un lungo sguardo eloquente. Antonio abbassò gli occhi.
«Tu…» osò poi, con voce rauca «hai mai pensato… cosa sarà del gruppo, di noi… dopo l’università?»
      Un’ombra di dolore sfuggì dalle ciglia dell’altro. «Non so cosa sarà di voi due…» cominciò, con una smorfia che avrebbe voluto trattenere. «Ma, di me, posso dire che entrerò in un monastero zen sui colli parmensi».
      Antonio sussultò. Il suo sguardo si scontrò con la figura dell’amico – d’un tratto, lontana e plumbea.
Quella confidenza cancellò un altro segreto: quello che guizzava nel petto di Enrico al nome di Norma. E, forse, lo spiegò. Antonio, per la prima volta, si chiese se non fosse stato superficiale a dar per scontato il disinteresse dell’altro per la ragazza. Mosse le labbra, come per chieder perdono. Non ne uscì neppure un suono.
Enrico guardò l’orologio da parete: «Cavoli… direi che è ora di cena». Si rivolse all’amico: «Allora, stasera, sei libero… Bene. Ti preparerò la crema di carote».

  *   *   *

Mentre Enrico russava al suo fianco, nel letto a due piazze, il cervello di Antonio lasciava cadere ricordi a scaglie, strappate dalle unghie delle ore. La sala studio del seminario minore, nel quale aveva trascorso due anni. Il ciangottare acerbo dei compagni, nel cucinotto mai riassettato. La voce del sacerdote, sotto le volte della cappella, davanti a quella riproduzione del crocifisso della chiesa di San Damiano.
      Una nuca mora e ben tosata, qualche banco più avanti. Quella di Alessio.
Di lui, riemersero anche il torace ben formato e gli occhi limpidi, immersi in una lettura, nella cameretta doppia. Era meno alto di Antonio e leggermente più robusto. Oltre a dividere la stanza, erano compagni di classe, in quell’istituto cattolico che riuniva scuole elementari, medie e liceo classico. Sotto la volta dell’ingresso, si separavano dai compagnetti preadolescenti – soprattutto da Domenico, che si soffermava più degli altri a salutarli – e guadagnavano la porta dell’aula insieme.
      Ma, più di tutto, li univa la fine della giornata, quando s’immergevano nel buio e nelle coltri. Allora, si stringevano, si carezzavano, si mordevano, in un’ebbrezza di muscoli e umori freschi che svelava la festa dei loro sedici anni. Ancora allora, il ricordo di quel piacere feroce strappava il sudore dalle carni di Antonio – insieme alle lacrime.
      Alessio era stato il culmine e il termine d’ogni bellezza, carnale o spirituale che fosse. Lo ricordò in giardino, curvo sul latino dei Padri o sulle epistole di S. Caterina da Siena. Un’ombra di sole gli aleggiava sulle labbra. Le lacrime di Antonio erano ormai un diluvio.
      C’era un balcone, all’ultimo piano del seminario. Ai suoi piedi, quel giorno, aveva trovato il crocchio dei compagni impietriti – salivano mormorii d’orrore.
Mentre correva, l’aveva intercettato Domenico. «Non guardare!» l’aveva supplicato, soffocando nei singhiozzi. E lui aveva, d’improvviso, inghiottito la gelida verità.
      Alessio non aveva lasciato alcun messaggio, per spiegare quell’ultimo volo dalla balaustra. Tanto che era rimasto il dubbio sulla natura volontaria dell’incidente. Ma ciò non aveva fatto alcuna differenza per Antonio, che aveva voluto seppellire il cadavere velenoso di quell’amore. Aveva lasciato il seminario, aveva cambiato liceo.
      Sentì Enrico bofonchiare e riscuotersi. «Tutto bene?» fece ad Antonio, con la bocca impastata.
Questi deglutì. «Sì» esalò.

  *   *   *

Avvertiva le dita fini di Norma premergli il braccio. Antonio regolava il passo su quello di lei, mentre misuravano piazza Cairoli. Il collegio omonimo si adagiava nella notte, con le bandiere sull’ingresso rilassate come ciglia. Le finestre illuminate e i lampioni ne dipingevano il colore rossastro, quasi magico sotto la luna piena.
Norma era raggiante, in quel lume. Ai piedi dell’astro, sembrava una giovane e splendida strega.
«Antonio… a cosa pensi?»
E corredò la domanda con un grappolo di risa cristalline.
«A niente…» mormorò lui. Si chinò a raccogliere un bacio dalle sue labbra, fresche come erbe.
La ragazza rivolse di nuovo gli occhi alla luna. «Lei ci sta rendendo pazzi» mormorò devotamente. «O, forse, ci benedice».
La sua bella voce di soprano tentò alcune note di un’aria:

Casta diva, che inargenti
Queste sacre antiche piante,
A noi volgi il bel sembiante,
Senza nube e senza vel! (*)

Antonio sorrise. Aveva capito il gioco. Rispose:

Tempra, o Diva,
Tempra tu de’ cori ardenti,
Tempra ancora lo zelo audace,
Spargi in terra quella pace
Che regnar tu fai nel ciel. (*)

Norma lo applaudì: «Bravo!»
Lui rise e le cinse i fianchi. Così abbracciati, proseguirono incontro alla notte, sui ciottoli consumati dai passi.





(*) Da: Norma, tragedia lirica in due atti di Vincenzo Bellini, libretto di Felice Romani, Atto I, Scena quarta.



Compreso in: AA.VV, Racconti bresciani, a cura di Viviana Filippini, edizione 2016, Historica Edizioni.

Commenti

Post popolari in questo blog

Letteratura spagnola del XVII secolo

Il Seicento è, anche per la Spagna, il secolo del Barocco. Tipici della letteratura dell'epoca sono il "culteranesimo" (predilezione per termini preziosi e difficili) e il "concettismo" (ricerca di figure retoriche che accostino elementi assai diversi fra loro, suscitando stupore e meraviglia nel lettore). Per liberare il Barocco dall'accusa di artificiosità, si è cercato di distinguere una corrente "culterana", letterariamente corrotta e di contenuti anche immorali, da una corrente "concettista", nutrita dalla grande tradizione intellettuale e morale spagnola. E' vero che il Barocco spagnolo vede, al proprio interno, vivaci polemiche fra autori (come Luis de Gòngora e Francisco de Quevedo) e gruppi. Ma l'esistenza di queste due contrapposte correnti non ha fondamento reale. Quanto al concettismo, è interessante notare come esso sia stato alimentato dalla significativa definizione che di "concetto" ha dato Francesco

Farfalle prigioniere, ovvero La vita è sogno

Una giovane mano traccia le linee d’una farfalla. Una farfalla vera si dibatte sotto una campanella di vetro. La mano (che, ora, ha il volto d’un giovane pallido e fine) alza la campanella. L’insetto, finalmente libero, si libra e guida lo spettatore nella storia del suo alter ego, la Sposa Cadavere.              Così come Beetlejuice , The Corpse Bride (2005; regia di Tim Burton e Mike Johnson) si svolge a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, mostrandone l’ambiguità. A partire dal fatto che il mondo dei “vivi” è intriso di tinte funeree, fra il blu e il grigio, mentre quello dei “morti” è caleidoscopico, multiforme, scoppiettante. A questi spettano la gioia, la saggezza e la passione; a quelli la noia, la decadenza, l’aridità. Fra i “vivi”, ogni cosa si svolge secondo sterili schemi; fra i “morti”, ogni sogno è possibile. Per l’appunto, di sogno si tratta, nel caso di tutti e tre i protagonisti. A Victor e Victoria, destinati a un matrimonio di convenienza, non è co

Il Cimitero di Manerbio: cittadini fino all'ultimo

Con l'autunno, è arrivato anche il momento di ricordare l' "autunno della vita" e chi gli è andato incontro: i nostri cari defunti. Perché non parlare della storia del nostro Cimitero , che presto molti manerbiesi andranno a visitare?  Ovviamente, il luogo di sepoltura non è sempre stato là dove si trova oggi, né ha sempre avuto le stesse caratteristiche. Fino al 1817, il camposanto di Manerbio era adiacente al lato settentrionale della chiesa parrocchiale , fra la casa del curato di S. Vincenzo e la strada provinciale. Era un'usanza di origine medievale, che voleva le tombe affiancate ai luoghi sacri, quando non addirittura all'interno di essi. Magari sotto l'altare, se si trattava di defunti in odore di santità. Era un modo per onorare coloro che ormai "erano con Dio" e degni a loro volta di una forma di venerazione. Per costituire questo camposanto, era stato acquistato un terreno privato ed era stata occupata anche una parte del terraglio