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La realtà



“Oh, fine pratico della mia poesia!
Per esso non so vincere l’ingenuità
che mi toglie prestigio, per esso la mia

lingua si crepa nell’ansietà
che io devo soffocare parlando.
Cerco, nel mio cuore, solo ciò che ha!

A questo mi son ridotto: quando
scrivo poesia è per difendermi e lottare,
compromettendomi, rinunciando

a ogni antica mia dignità: appare,
così, indifeso quel mio cuore elegiaco
di cui ho vergogna, e stanca e vitale

riflette la mia lingua una fantasia
di figlio che non sarà mai padre…
[…]

Non lo nascondo, se nulla ho mai nascosto:
l’amore, non represso, che mi invade,

l’amore di mia madre, non dà posto
a ipocrisia e viltà! Né ho ragione
per essere diverso, non conosco

il vostro Dio, io sono ateo: prigione
solo del mio amore, per il resto libero,
in ogni mio giudizio, ogni mia passione.

Io sono un uomo libero! Candido cibo
della libertà è il pianto: ebbene piangerò.
È il prezzo del mio «libito far licito»,

certo: ma l’amore vale tutto ciò che ho.
Sesso, morte, passione politica,
sono i semplici oggetti cui io do

il mio cuore elegiaco… La mia vita
non possiede altro. Potrei domani,
nudo come un monaco, lasciare la partita

mondana, cedere agli infami,
la vittoria… Non avrebbe perso
nulla, certamente, la mia anima!

Ché la fatalità di essere esistenza
inalienabile, razza, universo,
basta a chiunque: anche se al mondo è senza

fraternità, perché diverso.
Perciò le risa e le allusioni
dei poveri razzisti, scorrono attraverso

la sua realtà come dei suoni
non reali, di morti. Nel mio essere,
questa realtà hanno sesso e passioni…

E, certo, non ne ho gioia. Ossesse
ne sono le sue predestinate forme:
«le repressioni fanno di me un Esse Esse,

o un mafioso…» e io - è enorme,
lo so - lo sono: giovane figlio candido
santo barbaro angelo, le orme

calcai, per qualche tempo, che mandano
alla Rivolta Reazionaria
[…]

Tutto ciò non fu che crisma,
ombra che disparve dalla mia vita.
Rimase l’inclinazione allo scisma:

un naturale bisogno di farmi male alla ferita
sempre aperta. Un configurare
ogni rapporto col mondo che a sé m’invita,

al rapporto del mio figliale
sadismo, masochismo: per cui non sono nato,
e sono qui solo come un animale

senza nome: da nulla consacrato,
non appartenente a nessuno,
libero d’una libertà che mi ha massacrato.

Onde non io, ma colui che comunico,
trae la disperata conclusione,
di essere il reietto di un raduno

di altri: tutti gli uomini, senza distinzione,
tutti i normali, di cui è questa vita.
E cerco alleanze che non hanno altra ragione

d’essere, come rivalsa, o contropartita,
che diversità, mitezza e imponente violenza:
gli Ebrei… i Negri… ogni umanità bandita…

E questa fu la via per cui da uomo senza
umanità, da inconscio succube, o spia,
o torbido cacciatore di benevolenza,

ebbi tentazione di santità. Fu la poesia.
La strega buona che caccia le streghe
per terrore, conobbe la democrazia…

[…]

…io arriverò alla fine senza
aver fatto, nella mia vita
la prova essenziale, l’esperienza

che accomuna gli uomini, e dà loro
un’idea così dolcemente definita
di fraternità almeno negli atti dell’amore!

Come un cieco: a cui sarà sfuggita,
nella morte, una cosa che coincide
con la vita stessa, - luce seguita

senza speranza, e che a tutti sorride,
invece, come la cosa più semplice del mondo -
una cosa che non potrà mai condividere.

Morirò senza aver conosciuto il profondo
senso d’esser uomo, nato a una sola
vita, cui nulla, nell’eterno, corrisponde.

[…]

Ma io parlo… del mondo - e dovrei,
invece - parlare dell’Italia, e anzi,
di una Italia, di quella di cui sei,

con me, destinatario dei miei versi, figlio:
fisica storia in cui ti circostanzi.
L’ho chiamato «innocente», il mondo, io,

io, in quanto cieco, figlio martoriato.
Ma se guardo intorno questi avanzi
d’una storia che da secoli ha dato

soltanto servi… questa Apparizione
in cui la realtà non ha altro indizio
che la sua brutale ripetizione…

che scena… espressionistica! Penso a un giudizio
subìto senza senso… le toghe… le tristi autorità del Sud…
dietro i visi dei giudici - in cui il vizio

è un vizio di dolore, che denuda
ambienti miserandi - non si leggeva che impotenza
a uscire da un’oscura realtà di parentele, da una cruda

moralità, da una provinciale inesperienza…

[…]

Ah, io non so odiare: e so quindi che non posso
descriverli con la ferocia necessaria
alla poesia. […]

«Voi non contate, siete simboli
di milioni di uomini: d’una società.

Questa mi condanna, non voi, suoi automi.
Ebbene: sono felice della mia mostruosità.
O vogliamo ingannare lo spirito? Uomini

che condannano uomini in nome del nulla:
perché le Istituzioni sono nulla, quando
hanno perso ogni forza, la forza fanciulla

delle Rivoluzioni - perché nulla
è la Morale del buon senso, di una
comunità passiva, senza più realtà.

[…]

I miei amori -
griderò - sono un’arma terribile:

perché non l’uso? Nulla è più terribile
della diversità. Esposta ogni momento
- gridata senza fine - eccezione

incessante - follia sfrenata
come un incendio - contraddizione
da cui ogni giustizia è sconsacrata.

[…]

Solo un mare di sangue può salvare,
il mondo, dai suoi borghesi sogni destinati

a farne un luogo sempre più irreale!
[…]»

Questo può urlare, un profeta che non ha
la forza di uccidere una mosca - la cui forza
è nella sua degradante diversità.

Solo detto questo, o urlato, la mia sorte
si potrà liberare: e cominciare
il mio discorso sopra la realtà.”

PIER PAOLO PASOLINI

(Da La realtà, in: Poesia in forma di rosa, Milano 1964, Garzanti; edizione speciale per il «Corriere della Sera», 2015, pp. 50-66).

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