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Marzotto in scena

Il 1 maggio 2016, la Festa dei Lavoratori, a Manerbio, è stata celebrata con un marcato riferimento locale. “Lavoro”, per decenni, è stato sinonimo di Lanificio Marzotto - ora, una sorta di rudere urbano. A questa storia, la compagnia teatrale “Memorando” ha dedicato uno spettacolo, intitolato - per l’appunto - “Marzotto”. Era stato pensato per la rappresentazione nel piazzale antistante l’ex-lanificio, ma ragioni tecniche l’hanno trasferito al Politeama. 

            Il cast comprendeva Arun Gomera, Emma Lupatelli, Alberto Manfredini, Antonio Preti, Carla Provaglio, Anna Quadri, Giovanna Solimeo, Larissa Vetturio, Elhadji Ndiaye. La regia era di Fabrizio Caraffini. Fra gli attori, c’erano membri dell’associazione “Donne Oltre”.
            Al buio completo, l’esordio è stato affidato a voci solitarie: quelle di un ragazzo ventitreenne, di una giovane segretaria che sogna col fidanzato, di una ragazza madre, di una donna con due figli. Esistenze ordinare legate con un fil di lana - dato il contesto - alla Marzotto, in cui hanno trovato lavoro e soddisfazioni. Ma corre voce che tutto stia per finire… Un operaio sulla soglia della pensione sale sul tetto (immaginario) per far sapere a tutti cosa sta succedendo. I più giovani non possono capire il suo sentimento: per loro, il lanificio è solo un posto dove si lavora. Ma, per gli anziani, quello è tutta la vita. «Devono capirlo che noi operai non siamo solo braccia! Siamo cuore, cervello! Qui ci sono storie!» 

            Le storie iniziano con le confezioni gestite da francesi, alla fine degli anni ’20. Niente garanzie, nessuna assenza concessa - nemmeno alle donne incinte in preda alle nausee; complicità assoluta fra i padroni e il parroco, che predica contro gli scioperanti. Poi, il lanificio è acquistato dal conte Gaetano Marzotto. I cercatori di lavoro fanno a gara ad accaparrarsi la lettera di raccomandazione migliore (quella della maestra, del prete, di Marzotto stesso… o scritta da sé). Ma i posti non mancano, sembrano persino eccessivi. Arrivano operai anche da altri paesi; le donne hanno sempre più opportunità di guadagnarsi uno stipendio. Nasce la “città sociale”: cinema, bocciodromo, palestra e piscina, dopolavoro con ristorante e sala da ballo, convitto, asilo per i bambini delle operaie. A Manerbio si assapora finalmente il benessere, in un’euforia accecante. Ma non tardano nemmeno le solite contraddizioni dello sviluppo. Auto e vestiti nuovi diventano motivo di competizione e invidia; il benessere soffoca lo spirito critico; l’acqua del Mella si trasforma in veleno, per le scorie delle tinture. L’attività non è più sulla cresta dell’onda. Si diffonde l’incubo della lettera di licenziamento. Gli scioperi sono frequenti e accesi. Poi, l’inevitabile: il lanificio trasferirà le attività in Europa orientale. La maggior parte dei lavoratori si dovrà reinventare un futuro. La loro specializzazione - che era sempre stata un vanto - è un handicap, ora che si tratta di adattarsi. Alcuni di loro avevano ereditato la mansione; la sentivano incrollabile e inalienabile come un diritto di nascita. Il monologo finale spetta alla “presenza silenziosa” di tutta la storia: l’ultimo dei Marzotto. Il suo rammarico è diverso da quello degli operai: meno problemi economici, meno smarrimento; più senso dell’ineluttabilità, del fallimento personale, dell’impossibilità di spiegare un destino a chi non ha l’istruzione per comprenderlo. «Non poteva che finire così… Lo sapevano i sindacalisti, lo sapevano tutti… È l’andamento del mercato a decidere… A questo porta l’incapacità di adeguarsi a qualcosa di nuovo. Buonanotte, Manerbio».


Pubblicato su Paese Mio Manerbio, N. 108 (maggio 2016), p. 20.

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