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La vergine di ferro - II, 9

Parte II: Il Cigno Bianco e il Cigno Nero




9.

Isabella fluttuava mestamente sulle rive del Ticino, nella luce indefinita del crepuscolo. Cercava di cullare la malinconia con il fascino del Borgo, il suo monumento alle lavandaie operose d’una volta e la “Linguacciona” che scherniva quelle che erano pettegole. Cercava di non pensare alla favola di Odette e Sigfrido, evocata continuamente dalle acque cristalline del fiume.
            D’un tratto, fu riscossa da un guizzo. Un vestito nero che ondeggiava sulla strada, davanti a lei. Fissò quella figura. 

            Nilde Ario era là, in ampi abiti funerei.
Le labbra di Isabella si aprirono in un grido muto. Poi, si voltò e fuggì.
Ieri notte, quando ho spento la luce… ho visto… ho creduto di vedere… Nilde che mi fissava nel buio. No, non aveva preso Amedeo per pazzo, quando lui glielo aveva raccontato. E, in quel momento, gli credeva ancor più fermamente.
Perdonami, Nilde. Non avrei voluto essere gelosa di te. Non avrei voluto essere felice della tua morte.
L’altra – in carne ed ossa – era rimasta attonita, sulla strada. Avrebbe voluto richiamare indietro la biondina biancovestita, palesemente terrorizzata dall’apparizione. Ma Isabella era già scomparsa. Nilde non faticò a comprendere le cause del suo spavento. Lei, per il momento, era ancora ufficialmente morta. Ma non aveva potuto rimanere a casa di Amedeo, vedendo che lui non ritornava più. Sapeva che lui voleva recarsi in Borgo Ticino e lì era andata a cercarlo. Aveva trovato la sua auto. Nient’altro.

[Continua]


Pubblicato su Uqbar Love, N. 158 (12 novembre 2015), p. 17.

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