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La prima volta, ovvero Almeno qui si può ridere

Attendo in fila, sventolando il mio bravo foglio compilato con la lista di tutti i possibili e immaginabili quesiti legati al mio sangue (liscio o effervescente? Con ghiaccio o senza?). Con me, ci sono tre uomini e una ragazza che si è fatta accompagnare da un’amica. Per il momento, sono abbastanza distesa. Ma qualcosa già mi dice che, presto, mostrerò la stessa scioltezza di Jonathan Harker nel castello di Dracula. 

            «È la prima volta?» mi domanda un’infermiera. Confermo. «Allora, aspetti. E si beva un succo di frutta».
Mi rifornisco al bendidio apparecchiato nell’altra metà della stanza.
            Il primo assaggio dell’esperienza è un forellino su un polpastrello. L’amica dell’altra ragazza è particolarmente poco entusiasta dello spettacolo. A dirla tutta, non lo sono nemmeno io. Comunque, l’operazioncina è velocissima e pulita.
            Arriva il mio turno.
«Braccio destro o sinistro?»
Opto per il sinistro. Così – sussurra il mio Coniglio Interiore – salverò di sicuro il mio tatuaggio e la mano con cui scrivo.
Mi stendo sul lettino e l’infermiera mi lega il braccio al cuscinetto. Mi rendo conto di non fare onore all’AVIS nel dire questo, ma il mio primo sentimento è di FIFA.
            Arriva una collega di colei che si sta occupando di me. Con un sorriso premuroso, mi domanda: «Abbassiamo un po’ la testa?» Annuisco e lei regola il lettino. Mi pizzica affettuosamente una guancia.
«Non chiudere gli occhi!»
            Li riapro, da brava.
Più tardi, mi spiegherà che il diktat serve a verificare che io non sia svenuta: «Altrimenti, ci preoccupiamo!» Mi viene in mente il pugile di una barzelletta: “Ho terrorizzato il mio avversario… quando ha creduto d’avermi ammazzato!”
            «Scusate…» faccio, scherzosamente. «Tutte queste attenzioni… Ho proprio la faccia da condannata a morte?» Domanda retorica. So benissimo che la risposta è “sì”. «Ma no… è la prassi!» (La prospettiva del personale medico non è esattamente come la mia).
            Sopraggiunge la deliziosa – ahia! – sensazione dell’ago in vena. «Ecco» conclude la prima infermiera. «Tutto il dolore che Lei doveva sentire è finito qui».
            Il seguito è paziente attesa. Il mio caro liquido mi saluta e se la fila lungo il tubicino di gomma. La seconda infermiera mi consiglia di muovere i piedi, per facilitare la circolazione.
            Più tardi, torna la medesima e mi consegna una sorta di mela gommosa da strizzare con la mano sinistra.
            Mi ci applico di cuore.
Più tardi, lei ripassa e approva: «Vedi che va meglio, ora?» Significa che – grazie al “movimento strizzatorio” –  la sacca al mio lato si sta riempiendo più gioiosamente.
            Aghi in vena a parte, l’atmosfera è distesa. La seconda infermiera è particolarmente solare. «Che belle guanciotte hai!» Rimembro i fasti di quando avevo due anni e venivo chiamata “uccellino Titti” proprio per questo motivo.
            «Si vede che sei giovane!» commenta poi, passando dal mio lettino. «Di che anno sei? ’89? Ehm, in effetti, non sei proprio di primo pelo…» (Lo dico sempre anch’io).

            Finita l’operazione, ritorno al banchetto del bendidio, mirando ai panini (vi siete già spazzolati tutti quelli al crudo, MALEDETTI!). Mentre io e l’altra ragazza siamo coscienziosamente impegnate a far sangue nuovo, la seconda infermiera ci spiega: «Vedete, io parlo, scherzo… perché qui e il nido sono gli unici posti dell’ospedale dove nessuno stia male. Almeno, qui si può ridere».

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