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Nel cuore del Cerchio

 Si scende in un cortiletto; poi, si lasciano le scarpe su un basso scaffale di legno e si entra, scalzi e chinando il capo nel gassho, il saluto a mani giunte che indica rispetto e profonda consapevolezza.
            Il monastero zen “Enso-ji” - Il Cerchio si trova a Milano, in via dei Crollalanza 9. Si nasconde nel tessuto urbano, fra edifici incolori come le valve di un’ostrica. La perla, in questo caso, ha ben poco di lussuoso. Semmai, di esotico –ma quell’esotico che si cala perfettamente nella vita quotidiana. Fin dalle linee sobrie ed essenziali, Il Cerchio dichiara la lontananza dello Zen da tutto ciò che è moda, pacchianeria e parco a tema.
            Ad accogliere i praticanti, c’è quasi sempre Myoen: limpida, discreta e rasserenante come il luogo in cui vive. Lei e gli altri monaci presenti indossano un comodo abito scuro, di foggia giapponese, su una maglia chiara. In più, portano il rakusu, una sorta di stola color ocra che imiterebbe l’abito del Buddha.
Quando è giunta l’ora, i convenuti si dotano di uno degli zafu (cuscini da meditazione) disponibili e salgono al piano di sopra, nello zendo (sala da meditazione). 
            Si entra reggendo accuratamente lo zafu – prima il piede sinistro, poi l’altro – e inchinandosi. Ci si procura una stuoia da una pila posta all’ingresso e ci si sistema sul pavimento – pulitissimo e morbido sotto le piante dei piedi. Il monastero non è molto diverso dalle case giapponesi che siamo abituati a vedere in televisione. La sua funzione “speciale”, però, è segnalata dall’immagine del Buddha Shakyamuni che guarda i praticanti, seduti sugli zafu e rivolti alle pareti. Davanti a lui, fiori e un bastoncino d’incenso – quello giapponese, più fresco e pungente dell’incenso da chiesa.
            L’inizio della meditazione è segnalato da tre rintocchi di campana tibetana, che richiamano alla concentrazione corpo, mente e spirito. Questa curiosa campana, agli occhi di un occidentale, può ricordare un mortaio per spezie più che uno strumento musicale. Il suo suono è però ovattato e profondo; intride l’aria lentamente e profondamente, come l’aroma dell’incenso. I rintocchi e il profumo si espandono in cerchi, come un’onda nell’acqua.
            Mentre i presenti s’immergono sempre più nella concentrazione sul qui e ora, la penombra serale si addensa attorno a loro, indisturbata. Venti minuti di zazen (meditazione seduta) si alternano a dieci di kinhin (meditazione camminata). Il kinhin, oltre a sgranchire le gambe rimaste incrociate a lungo, permette ai praticanti di evitare l’isolamento in se stessi e di formare un tutt’uno, mentre misurano lo zendo a passi cadenzati e sincronici.
            A scadenze regolari, gli incontri prevedono anche la recitazione dei sutra, i testi a cui è affidata la trasmissione verbale degli insegnamenti buddhisti. Vengono letti in traduzione italiana; ma, affiancata a essa, è la cantillazione nella lingua originale – sino-giapponese. Invidio chi sa comprenderla e coglierne le sfumature; ma è sicura la sua profonda suggestione, simile a quella creata dalla campana tibetana. E, purtuttavia, né cantillazione, né campana, né incenso possono produrre qualcosa di simile all’esaltazione, o all’allucinazione. I sutra sono scanditi dai colpi sordi di un tamburo ligneo con cassa rigonfia, simile nella forma a un pesce. La lingua sino-giapponese, così secca nella propria sillabazione, si sposa perfettamente allo strumento.
            La pratica è conclusa dalla recitazione dei Quattro Voti del Bodhisattva, ovvero i propositi di colui che segue la via dello Zen non solo per beneficio personale, ma anche per aiutare gli altri. Stavolta, la cantillazione non viene sottolineata da alcun rintocco. Questa è la traduzione dei Voti impiegata presso Il Cerchio:

Gli esseri sono innumerevoli,
voto di aiutare tutti.
Le brame sono inesauribili,
voto di estirparle tutte.
Il Dharma [l’insegnamento del Buddha, che coincide con la legge universale, N. d. A.] è infinito,
voto di apprenderlo.
La via del Buddha è suprema,
voto di realizzarla.

            Al termine dell’incontro, si ripongono stuoie e zafu; si spazza lo zendo; ci si congeda. Non si fa altro – perché non c’è altro da fare. Non c’è, realmente, niente da fare.

 Pubblicato su Uqbar Love n. 122 (11 febbraio 2015), pp. 6-7.

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