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Visualizzazione dei post da febbraio, 2015

Il fante di coppe

Venite più avanti, tarocchi imbellettati, indovini sfranti di giorni trapassati: io, come Cirano (1) , affilo questo foglio, perché, su di esso, uccido quando voglio. So che sono solo un’infima figura, nel mazzo dei destini di dubbia fattura; ma proprio non sopporto chi cincischia con le carte e quelli che della vanità han fatto un’arte. Io son fante di coppe (2) e tu un re di quattro semi, ma, sopra questo panno, tutti e due fermiamo i remi: qui, ognuno è la propria nuda faccia, nella cabala del caso che i destini allaccia. Voi, profeti da fiera, che vendete a tutti un’altra vita, guardatevi nel cuore: l’avete già tradita. E voi che, a chi contesta, date del “decostruzionista”: masturbatevi le idee, lasciatemi la vista. A quelli come me, che han duplice cuore, forse è proibito il sogno di un amore; non so chi ho più amato fra quelli che ho avuto; per colpa o per destino, la metà intera ho perduto. Ma ogni Rossana è bella e belli i Cirano

L'alba a Occidente

Dopo I tre pilastri dello Zen, Philip Kapleau torna su queste pagine con: La nascita dello Zen in Occidente, Roma 1982, Ubaldini Editore [tr. it. di: Zen. Dawn in the West, New York 1978 – 1979, Anchor Press. Traduzione italiana a opera di Nazareno Ilari]. Stavolta, l’autore si presenta direttamente nelle vesti di roshi (“venerabile maestro”), intento a esporre negli Stati Uniti il frutto del proprio percorso spirituale in Giappone. Ciò significa venire a patti con le necessità dell’ambiente accademico, assai lontano da quel che è la pratica dello Zen. Questa tradizione rifugge dai discorsi dotti e si affida alla meditazione, come veicolo concreto per raggiungere l’illuminazione (la caduta delle illusioni, compresa quella dell’esistenza di un “ego”). Parimenti, i roshi, in Giappone, deprimono l’egotismo degli allievi, dando risposte che deludono le loro aspettative intellettualistiche e tendono al massimo il loro iniziale senso di frustrazione. Nel libro, invece, vediamo un Kapleau

Il velo impietoso

Egregio prof. Aldo Durì, dirigente scolastico dell’ I.S.I.S. (ironia dei nomi?) "Malignani 2000"  di Cervignano del Friuli, ho il piacere di conoscerLa grazie a questo articolo .  Lei è stato latore di vere e proprie perle, circa concetti-chiave come “laicità”, “tolleranza” e “(anti)razzismo”. Partiamo dal titolone: No al velo in classe. Il preside: «Può generare razzismo». Contesto: un’aggressione a sfondo islamofobo nella Sua scuola, dopo le ultime prodezze dell’Isis (quell’altro, non il Suo). Mi permetto di testimoniarLe la mia solidarietà: episodi del genere sono sempre i più spinosi da affrontare, per un dirigente scolastico coscienzioso. E come viene affrontato? Intanto, ricordando che non sono ammessi copricapi durante le lezioni. Ottimo. Basterebbe questo a chiudere la vicenda: il velo fuori dalla scuola, in classe capo scoperto. Doverosa e corretta anche la Sua decisione di espellere il picchiatore. Poi, però, salta fuori il Perlone d’Oro: «Essendo la scuo

Viene alla luce il "Lessico bresciano"

Il Lessico bresciano raccolto in un unico volume (2014, Compagnia della Stampa Massetti Rodella editori): questa è l’opera postuma di Gianni Pasquini. L’autore (Borgo San Giacomo, 22 novembre 1926 – 17 giugno 1996) è ricordato soprattutto come insegnante e come sindaco del comune natio, dal 1956 al 1970. Personaggio poco appariscente, era però dotato di solida cultura, appassionato di arti e di storia. Il dizionario di dialetto bresciano da poco pubblicato condensa le sue ricerche per borghi e valli, finalizzate a documentare i lemmi, le loro varianti locali, i processi di evoluzione della lingua delle campagne. L’allievo Agostino Garda, autore della presentazione e del risvolto di copertina, attribuisce questo interesse di Pasquini non a nostalgismo o campanilismo, ma alla consapevolezza di come il dialetto sia un mezzo espressivo affiancato all’idioma nazionale e dotato di sfumature intraducibili. “Dialetto non come barriera, ma come opportunità di conoscenza” (A. Garda, risvolto

Davanti alla tenda

Davanti alla tenda di Barbarah, si può sostare solo in punta di piedi e con un vago sentore di pudore violato. Perché la veste casual del verso libero non copre e non edulcora. La tenda trasparente nelle trame rotte (p. 32) lascia vedere una nuda vestita, femminile e pura nel suo rosa carne (p. 33), che s’immerge nel mare di se stessa. I pesci sono volti e dettagli, guizzanti in anfratti di memoria. Risalgono da essi le righe di pioggia (p. 58) disegnate un tempo col nonno, o una scatola di savoiardi che a me non piacevano neanche troppo (p. 63), ma resi inestimabili dal loro tramonto. Barbarah torna sempre al suo vecchio posto dove amò la vita, come dice Vinicio Capossela. Là, c’erano la campagna e il mare. Ma anche la chiesa bianca di Loreto (p. 58), le margherite che odoravano di cimiteri (p. 55) e uova che erano il giallo del sole portato sulla terra (p. 53). Il paradiso è coi pollini che accarezzano il viso, mentre si fissa il mare (p. 40). Un orizzonte non deve avere i conf

Prove di nuoto nella birra scura

La mattina non esiste. E il buio attua un colpo di Stato tutte le sere, dopo l’aperitivo. È fondo come il mare; persone e pensieri sono pesci che ci guizzano accanto, ignoti e indistinti. Il mare di buio è alcolico, fa parlare i bicchieri. Sicché le poesie sono Prove di nuoto nella birra scura (Sesto San Giovanni 2014, edizioni del Foglio Clandestino).              Dario Bertini (N. Legnano, 1988) è alla sua terza raccolta di versi, dopo Distilleria di contrabbando   (Pavia 2009, Cardano) e Frequenze clandestine  (2012, Sigismundus Editrice). Il suo contrabbando, per l’appunto, è quello della poesia, infilata “in pub, bar, piazze e camere in affitto” (p. 87). Questi sono anche la materia letteraria di Dario, trasfigurata da un surrealismo a ritmo di jazz. Nel mondo del poeta, tutto è normale: una foca svedese in fondo all’armadio (troppo facile far battute sull’Ikea), scimmie che scandiscono i carmi di Catullo, conigli che prendono vita su una camicia e avventori di pub che schiz

Nel cuore del Cerchio

  Si scende in un cortiletto; poi, si lasciano le scarpe su un basso scaffale di legno e si entra, scalzi e chinando il capo nel gassho, il saluto a mani giunte che indica rispetto e profonda consapevolezza.             Il monastero zen “Enso-ji” - Il Cerchio  si trova a Milano, in via dei Crollalanza 9. Si nasconde nel tessuto urbano, fra edifici incolori come le valve di un’ostrica. La perla, in questo caso, ha ben poco di lussuoso. Semmai, di esotico –ma quell’esotico che si cala perfettamente nella vita quotidiana. Fin dalle linee sobrie ed essenziali, Il Cerchio dichiara la lontananza dello Zen da tutto ciò che è moda, pacchianeria e parco a tema.             Ad accogliere i praticanti, c’è quasi sempre Myoen: limpida, discreta e rasserenante come il luogo in cui vive. Lei e gli altri monaci presenti indossano un comodo abito scuro, di foggia giapponese, su una maglia chiara. In più, portano il rakusu, una sorta di stola color ocra che imiterebbe l’abito del Buddha. Quan

La bambola di cera

Quando mi si domanda quale sia il rapporto tra la spiritualità cristiana e i figuri che “difendono le radici cattoliche” tramite i mass media, mi viene in mente questo brano tolstojano: Nessuno potrebbe certo vietare a un uomo di fabbricarsi una figura di cera e di baciarla; ma se costui venisse a piantarsi con la sua bambola dinanzi a un uomo innamorato e si mettesse ad accarezzarla, come l’altro accarezza la donna amata, l’innamorato se ne sentirebbe certamente infastidito. (1)             Se qualcuno ha bisogno per forza di trovare in qualche “autorità sacra” la legittimazione della propria mentalità borghese, faccia pure. Ma non la si venga a spacciare come il massimo ideale del Cristianesimo. Né mi si dica che sbraitare sotto i riflettori è espressione di grande fede. Può anche darsi che lo sia, nell’ottica personale di chi lo fa. Certo, mi rimarrà sempre misterioso il movente di chi recita il ruolo di fariseo, sapendo d’essere pubblicano. Però, non riesco a collegare questo

Farfalle prigioniere, ovvero La vita è sogno

Una giovane mano traccia le linee d’una farfalla. Una farfalla vera si dibatte sotto una campanella di vetro. La mano (che, ora, ha il volto d’un giovane pallido e fine) alza la campanella. L’insetto, finalmente libero, si libra e guida lo spettatore nella storia del suo alter ego, la Sposa Cadavere.              Così come Beetlejuice , The Corpse Bride (2005; regia di Tim Burton e Mike Johnson) si svolge a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, mostrandone l’ambiguità. A partire dal fatto che il mondo dei “vivi” è intriso di tinte funeree, fra il blu e il grigio, mentre quello dei “morti” è caleidoscopico, multiforme, scoppiettante. A questi spettano la gioia, la saggezza e la passione; a quelli la noia, la decadenza, l’aridità. Fra i “vivi”, ogni cosa si svolge secondo sterili schemi; fra i “morti”, ogni sogno è possibile. Per l’appunto, di sogno si tratta, nel caso di tutti e tre i protagonisti. A Victor e Victoria, destinati a un matrimonio di convenienza, non è co