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Visualizzazione dei post da ottobre, 2014

Siegfried nel Far West, ovvero Virtù e Fortuna

Trattando di Sentieri selvaggi , R. parlò di “morte del western”, per il venir meno di quel senso dell’ignoto che ne era l’anima. Parlò anche del virilismo e del razzismo indispensabili al genere. Django Unchained   (2013; scritto e diretto da Quentin Tarantino) li ostenta entrambi e lo fa nel teatro più adatto: il Nord America del 1858, in piena economia schiavistica. Il titolo è asciutto e pregnante come quello delle tragedie greche. Esso ricorda per contrasto Prometeo incatenato. Di sicuro, anche qui viene narrato il mito di una figura titanica che si oppone alla “tirannide naturale e necessaria”. Come si fa con ogni forma d’arte ormai esaurita, il film gioca a ricombinare i modelli del passato. “Django” è un nome arcinoto ai cultori del western: proprio poco fa, qualcuno mi ha menzionato la prima versione del personaggio, interpretato da Franco Nero, che ha offerto la propria partecipazione straordinaria anche per la pellicola di Tarantino. Se il primo Django era nero nell’ab

Deliri(c)o

Negli scorsi giorni, ho religiosamente ascoltato le considerazioni telefoniche di un giovanissimo poeta e critico letterario, convintissimo che l’arte debba avere uno spessore sociologico. Oggi, pubblico un attualissimo libretto d’opera (senza musica, ovviamente) sulla vicenda storica della Monaca di Monza. Almeno, per quanto riguarda lo spessore sociologico, non si può dire che manchi. Ho passato il mio secondo anno di liceo a idolatrare la “sventurata che rispose”, fino a farmi prestare un saggio (di cui non ho annotato i dati bibliografici, ahimè) dalla mia insegnante d’allora. Più tardi, dalla ri-digestione di quei materiali, nacque un delirio di barocchismo sfrenato, con qualche vena pucciniana. Avvenne durante i miei primi anni di università, quando mi rimpinzavo di opere liriche –cosa che, recidivamente, non rimpiango.             Ecco, uscita dalle fasce, Virginia de Leyva. Come direbbe Manzoni: se vi annoierà, crediate che non s’è fatto apposta. Io vi ho avvisato…

Werther VS Ortis - L'ardua sentenza

In realtà, non sono nuova ai confronti fra classiconi. Mi sono già occupata di "Madame Bovary VS Anna Karénina" , ovvero: Due modi per regalare un biforcuto copricapo al coniuge e diventare, al contempo, immortali.             Ora, sono in piena “crisi del quarto di secolo”, perciò mi rivolgo, piuttosto, a figure di gggiovani tanto romantici, ma bistrattati dal fato e dal secolo sciocco ( O tempora! O mores! ). E lo faccio senza alcuna pretesa di serietà. Anche perché l’argomento mi fu offerto da una conversazione con un mio burbero e arguto amico, al Caffè Vigoni di Pavia.             «Werther è un subumano» bofonchiò lui, coi suoi consueti mezzi termini. «Non studia, non lavora, è viziato. Non è nemmeno capace di spararsi come si deve… Credo bene che Lotte gli abbia preferito Albert. È molto più affidabile».             Non ci sarebbe bisogno di specificarlo (vero?), ma la conversazione riguardava I dolori del giovane Werther, il romanzo epistolare di Johann Wolfga