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Visualizzazione dei post da settembre, 2014

Il complesso di Turandot

Un simbolo piuttosto fiabesco e popolare della crudeltà è la principessa cinese Turandot, protagonista dell’omonima opera musicata da Giacomo Puccini (1858-1924) su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni e completata postuma da Franco Alfano (1926). È il genere particolare di questa leggendaria crudeltà a colpirmi.             Turandot è bellissima e vivamente intelligente. È circondata dall’affetto del padre, dalla venerazione di un intero popolo, dall’amore degli innumerevoli pretendenti. Per certi versi, ha perfino cuore, come dimostra la sua profonda commozione davanti al destino della sua antenata Lo-U-Ling, violentata da un principe straniero. Ciò che muove le sue azioni è la “voce” di una vittima innocente.             Proprio questo “cuore” e questo sdegno per l’ingiustizia, però, fanno di Turandot un mostro. Assorta com’è nella “voce che grida dalla tomba”, dimentica l’amore per i vivi. Anzi, di essi fa le vittime da sacrificare alle ceneri della fanciulla sventurat

La tela di Penelope

Leggendo il Catechismo della Chiesa cattolica, si rimane solitamente colpiti (o intimoriti) dalla chiarezza adamantina dell’articolazione, dall’impressione di compattezza e coerenza che la mastodontica opera vuole dare. Io, invece, mi sono soffermata su quello che sembrerebbe relegato ai margini: le note e le fonti. Perché, a pensarci bene, è in esse l’essenza dell’opera: in quel formicaio di menti che hanno pensato, elaborato, scritto, compendiato, raccolto, per più di duemila anni. Il grosso volume che pesa sul mio tavolo non avrebbe mai potuto nascere, senza l’eredità di testi e documenti che l’ha preceduto. Esso non è che il risultato della volontà di spremere un succo coerente dalla costellazione di autori diversissimi che hanno fatto la storia della dottrina cattolica. Ma questa “coerenza” è stata posteriore e derivata, rispetto agli sforzi coraggiosi di esprimere pensieri su Dio e sull’uomo in relazione a Lui.             “Cattolico”, per l’appunto, è tutto quanto è καθολικ

Le porte della percezione

Pare che i Doors abbiano mutuato il proprio nome dalle “porte ( doors ) della percezione”. Questa espressione mi è tornata in mente guardando Hellraiser (1987; regia e soggetto di Clive Barker). Non è stato l’unico déjà vu nel corso della visione. Più volte, mi è tornata in mente La Mummia . Anche qui ci sono una moglie adultera, una giovane ingenua che paga le conseguenze degli atti di lei, un oggetto misterioso che apre dimensioni inquietanti e un amante non-morto, eternamente suppliziato e voglioso di tornare alla vita vampirizzando altri uomini. Però, insistere oltre nel paragone fra i due film sarebbe blasfemo. La Mummia è un horror pacchiano, con mucchi di americanate (ed egizianate) per spettatori “di bocca buona”… o desiderosi di occasioni di humour nero. Hellraiser richiede più stomaco e, soprattutto, più cervello.             La trama, in sé, è semplice. Larry (Andrew Robinson) e la sua seconda moglie Julia (Clare Higgins) si sono appena trasferiti in un villino abbandon

Cairoleide

Poemetto eroitragicomico sull’assedio dell’Ordine goliardico del Labirinto al Collegio Cairoli di Pavia (23 aprile 2013) Stanca è la Diva di cantare l’ire, l’arme, gli amori e siffatte boiate, poiché spesso barbati di Morfeo alunni la tediarono grattando le corde a mendicar balordi allori. Dissemi dunque, quand’io la evocai suonando alla porta numero sette: “Ancor le chiome ho nella spugna avvolte e sul fornello vivanda fumante: trova tu –te ‘l concedo- la materia al canto, che nova sia e immortale.” Si faccian da parte Achille bilioso, quel ribaldo d’Ulisse e il pio Enea che in dubbie crociere il tempo consuma; vada Orlando col senno sulla luna e si tenga Goffredo i santi segni. La vera Troia per cui si soffrì è sul Ticin e da esso ha nome; quali uccelli dal disio chiamati, quivi s’adunano molti studenti, de’ quali il fior fiore ha lunghi mantelli e acuto berretto rivolto all’insù. Or mi soccorrano i lor santi numi, spirando

Grazie al cielo

“«Allora, le profezie delle vecchie canzoni si sono avverate, come al solito!» disse Bilbo.             «Certo!» disse Gandalf. «E perché non dovrebbero avverarsi? Di sicuro, tu non dubiti delle profezie, solo perché hai dato tu stesso una mano a far sì che si realizzassero, vero? Non crederai sul serio, vero, che tutte le tue avventure e tutti i tuoi scampati pericoli siano stati diretti dalla sola fortuna, per il tuo puro e semplice profitto? Sei un’ottima persona, signor Baggins, e ti apprezzo molto; ma sei solo una piccola creatura in un vasto mondo, dopotutto!»             «Grazie al cielo!» disse Bilbo ridendo, e gli porse la tabacchiera.” J. R. R. TOLKIEN (Da: The Hobbit or There and Back Again, 2013, HarperCollins Publishers, p. 351. Traduzione mia).

Se questo è populismo

“Nel villaggio successe una casa del diavolo quando volevano mettere il dazio sulla pece. […] Mastro Turi Zuppiddu si dimenava sul ballatoio colla malabestia e il patarasso in pugno, che voleva far sangue, e non l’avrebbero trattenuto nemmen colle catene. La bile andava gonfiandosi da un uscio all’altro come le onde del mare in burrasca. Don Franco si fregava le mani, col cappellaccio in capo, e diceva che il popolo levava la testa; e come vedeva passare don Michele, colla pistola appesa sulla pancia, gli rideva sul naso. Anche gli uomini, a poco a poco, s’eran lasciati riscaldare dalle loro donne, e si cercavano l’un l’altro per mettersi in collera; e perdevano la giornata a stare in piazza colle mani sotto le ascelle, la bocca aperta, ad ascoltare il farmacista il quale predicava sottovoce, perché non udisse sua moglie che era di sopra, di fare la rivoluzione, se non erano minchioni, e non badare al dazio del sale o al dazio della pece, ma casa nuova bisognava fare, e il popolo av

Quel certo non-so-che

Se c’è qualcuno in grado di spiegare a grandi e piccini la solitudine e la Sehnsucht dell’artista, quello è Tim Burton. Lo dimostra in Edward Mani di Forbice , ma ancor più –a mio avviso- in The Nightmare Before Christmas.             Il mondo del poeta –o, meglio, dell’attore di teatro- è quello della notte, in cui ogni illusione ed ombra assume concretezza. Ecco, dunque, che Burton piazza il suo artista-dandy nella Città di Halloween. L’atmosfera della festa, con la sua familiarità allo spettatore, lo catapulta senza sofisticherie nella sfera del lunare, del misterioso, dell’oscuro. Il tempo e il luogo della storia sono il non-tempo e il non-luogo degli archetipi, delle esperienze note all’Uomo in quanto tale, che consacra gli aspetti fondamentali del ciclo della vita nelle feste. Anche il suo lato più tetro (la morte, la paura) merita una consacrazione –che è appunto quella residua nella festa di Halloween.              Di questo culto l’attore-poeta è il gran sacerdote. J

L'albatro con le lame

Guardare Edward Mani di Forbice è stato facile e complesso come odorare un fiore. Mi ci sono volute settimane, però, per decifrare quel senso di déjà vu che il film mi ha provocato. Avevo già conosciuto un “Edward Mani di Forbice”: l’Albatro di Ch. Baudelaire. Sovente, per diletto, i marinai Prendono gli albatri, grandi uccelli dei mari, Che seguono, indolenti compagni di viaggio, La nave che scivola sugli abissi amari. Non appena li han deposti sui ponti, Quei re dell’azzurro, maldestri e vergognosi, Lascian pietosamente le vaste ali bianche Trascinarsi come remi ai loro fianchi. L’alato viaggiatore, com’è maldestro e fiacco! Lui, allor sì bello, com’è ridicolo e brutto! Uno gli stuzzica il becco con la pipa, L’altro mima, zoppicando, l’infermo che volava! Edward, nel suo castello, volava fino alle altezze della Fantasia e della Creatività. Le lame che sostituivano le sue mani erano ali in grado di dare corpo a ogni sua immaginazione, nelle siepi c

Indovina chi fa coming out a cena

Una casa in un vicolo cieco. In cucina, il tavolo di rovere è apparecchiato (tre piatti, tre bicchieri, il pane avanzato dal pranzo). La sera estiva è rischiarata da una plafoniera al neon.             La figlia (ventenne) trae un profondo respiro. «Devo dirvi una cosa». «Proprio adesso?» si schermisce la madre. È accigliata, come quando teme qualche nube che potrebbe rovinare la digestione in famiglia. «Mamma, non è niente di che…» la rassicura la ragazza –cercando di non dare a vedere come sia anche più innervosita di lei. «È soltanto una spiegazione che vi devo da tempo».             Il padre non dice niente. O non ha motivo di sospettare, o ha già capito fin troppo. «Vi sarete accorti che me la prendo molto per le questioni LGBT» prosegue la figlia. «Ci sono due ragioni. La prima è una questione di senso della giustizia… La seconda è che…»             (No. Non usa la parola “bisessuale”. I suoi interlocutori, probabilmente, non capirebbero neppure di che si tratti).

Addio a John Smith

Da bambina, idolatravo letteralmente il personaggio di Pocahontas. Non avevo il videoregistratore per guardare il film a casa, ma possedevo libri illustrati, musicassette e giochi da tavolo tratti da esso. Dopo quasi vent’anni, mi rendo conto dei motivi per cui mi affascinasse.             Era la storia di una ragazza schietta e semplice, capace di rapporti umani intensissimi. Viveva in un mondo piccolo e atavico, da “selvaggi”, ai nostri occhi di “moderni” (un filino presuntuosi e superficiali, a dire il vero). L’armonia di Pocahontas con la natura e coi propri simili sono perfette, se non per un’incrinatura: il suo spirito vivace e curioso richiede qualcosa in più. In questa incrinatura, s’infiltra John Smith.             È altruista, di orizzonti mentali sconfinati, pieno d’amore per il viaggio come esperienza disinteressata. Un’anima libera come quella di Pocahontas può solo amarlo. Però, ricordiamoci: lui sta pur sempre dalla parte dei conquistatori. Che non lo faccia per a