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La danza del serpente, ovvero La filosofia dei supereroi


“Questa è la danza del serpente/che vien giù dal monte/per ritrovare la sua coda/che ha perso un dì…” recita una filastrocca. Anche Beatrix (Uma Thurman), dopo quattro anni di coma, parte per “ritrovare la sua coda”: i pezzi del proprio passato dilaniato. La trama di Kill Bill è nota: un’ex-killer professionista –Beatrix, appunto- subisce un attentato da parte della Deadly Viper Assassination Squad, alla vigilia delle nozze. Uscita (o, meglio, fuggita) da un luogo di cure tutt’altro che caritatevoli, va alla ricerca dei membri della Squad, per vendicare su di loro la perdita dello sposo (Chris Nelson) e, ancor più, quella della bimba che già portava in grembo (non sapendola sopravvissuta). L’impresa riuscirà senza scampo, almeno a giudicare dal nome in codice della protagonista: “Black Mamba”, un rettile che, in Africa, sarebbe sinonimo di morte sicura. L’ultimo obiettivo, appunto, sarà l’ “incantatore di serpenti” Bill (David Carradine): ex-boss della Sposa, padre biologico della bambina (e quello sostitutivo di Beatrix) e mandante dell’attentato. La relazione intensa (quasi edipica) tra i due rende difficile tracciare i confini tra sadismo e masochismo in quest’atto. Parlare di “ritorsione per l’abbandono” sarebbe riduttivo. Anche perché non spiegherebbe il coacervo dei doppiogiochismi che ha portato i membri della Squad a collaborare con una vendetta così personale.
  Certo, Budd (Michael Madsen) è solidale col fratello Bill. O-Ren Ishii (Lucy Liu) non vede di buon occhio che una straniera “giochi” con le spade dei samurai (sebbene lei stessa non sia giapponese al 100% e, da boss di un clan della Yakuza, viva ciò con forti complessi). Vernita (Vivica A. Fox) è la meno convinta della propria scelta, spiegabile con un’invidia quasi adolescenziale verso Beatrix (« “Black Mamba”… Avrebbe dovuto essere il mio nome»). Ma il confronto più interessante è quello con Elle (Daryl Hannah). La loro specularità è evidente fin dall’apparenza fisica. Sono allieve dello stesso maestro di kung-fu, Pai Mei (Gordon Liu). Sono rivali nei favori di Bill. Si contendono la stessa spada –il che, in contesto guerriero, è come contendersi l’anima. Se Beatrix prende il nome da un serpente velenosissimo, Elle di veleni è fine intenditrice e –dulcis in fundo- sceglie come arma proprio un black mamba vivo. Un alter ego della vendicatrice, momentaneamente in difficoltà. Però, al contrario di Elle, Beatrix mantiene un’assoluta razionalità anche nella violenza. Lei non si lascia mai accecare. Quella benda sull’occhio della nemica reifica immediatamente la sua dimezzata lucidità, lo scarso lume del suo intelletto, che non va oltre una bassa furbizia. È anche un marchio lasciato da Pai Mei, come castigo per l’insubordinazione della seconda allieva. L’arrogante impulsività le ha impedito di diventare vera erede del proprio maestro, cosa che le sarà fatale.

            Il crudele e millenario Pai Mei richiama alla mente un’altra figura cinese di maestro, quella presente in Addio mia concubina. La coincidenza difficilmente è casuale. Pai Mei è simbolo di un’intera cultura, in cui la gerarchia sociale è geometrica e immutabile come una legge di natura. La sua pedagogia consiste nel dimostrare la propria forza all’allieva, ma anticipandole, al contempo, che anche lei la acquisirà, se accetterà fatica e disciplina. E l’anticipazione si rivela veritiera. Il legame tra Beatrix e Pai Mei non può essere detto “d’affetto”, viste le premesse. Se possibile, è anche più saldo: una trasfusione d’anima, che renderà l’eroina in grado di passare dalla morte alla vita. La resurrezione (neanche troppo simbolica) è la cifra di “Black Mamba”. La sconfitta della morte è la somma prova, per un eroe epico. Il concretissimo linguaggio del film lo dice col coma iniziale della Sposa, poi con la sepoltura in vita che le infligge Budd. Questo grottesco supplizio sembrerebbe la soluzione per il conflitto etico vissuto dal carnefice (che, in verità, non ha molti altri momenti di grandezza): «Quella donna merita la sua vendetta. E noi meritiamo di morire. Ma questo vale anche per lei. E quindi staremo a vedere.»
            Mentre commemoravo i milioni di pomodori sacrificati al genio di Quentin Tarantino, mi domandavo cosa rendesse sopportabile quella trafila di macelli. Forse, la grazia barocca con cui veniva prestigiato il materiale cruento. Q. Tarantino gioca a carte scoperte. Non vuole l’illusione della verità. La sua storia è fatta di celluloide e lo dichiara allo spettatore, aprendogliene gli ingranaggi: l’animazione, il bianco-e-nero, la colonna sonora ironica e –proprio per questo- eloquentissima. Questo caleidoscopio, d’un paradossale estetismo, lascia perfino spazio per pensare che i paesaggi texani siano suggestivi, o che Lucy Liu in kimono bianco sulla neve sia splendida. Oso dire che chiunque altro, al posto di Q. Tarantino, avrebbe partorito qualcosa di disgustoso o banalmente inverosimile. Lui, invece, ci ha lasciato una saga (Vol. 1: 2003; Vol. 2: 2004). Beatrix è quasi una supereroina e dietro un supereroe –spiega Bill- c’è sempre una filosofia. In particolare, lei sarebbe simile a Superman: i suoi panni quotidiani sarebbero stati un travestimento, anzi, una critica rivolta al “mondo normale”. Ma quello sarebbe stato anche l’unico mondo da lei voluto per crescervi la figlia, causa d’una nuova “voglia d’innocenza”. Il culmine della vendetta sfuma nella riconciliazione e le parole d’amore si mescolano agli affronti, nell’ “ora della verità”. L’ “incantatore” ha paura del proprio “serpente”, ma non vale il contrario. Beatrix, perciò, vince –masochisticamente. In un certo senso, diviene veramente “Beatrice”, portatrice di gioia. L’arrivo della Nemesi reca a un animo indurito l’unica beatitudine di cui egli sia capace.

            Una delle ultime scene la vede quasi tornata all’infanzia, mentre abbraccia un pelouche e ripete: «Grazie!», rivolta al cielo. Già, perché c’è anche un senso paradossale del trascendente, nella saga. “Dio” è quell’illimitatezza di sentimenti che realizza un’impresa impossibile. È Colui che viene trafitto dalla rottura di un giuramento. È l’assurda serenità finale, dopo un climax di omicidi. Non c’entra con la proverbiale “misericordia”, citata solo per humour nero. Nell’universo dei Serpenti, il perdono e il rimpianto esistono unicamente nel riconoscimento del valore guerresco altrui. Alla fine, “tutto va bene nella giungla”, perché “la leonessa ha ritrovato il suo cucciolo”. Il “caos” che furoreggia nel film corrisponde all’ordine della natura: un legame viscerale che viene rotto deve riannodarsi e lo farà inevitabilmente.
            In tutto questo, la figlioletta di Beatrix (Perla Haney-Jardine) sembra restare intatta. Anzi, ripercorre la vicenda materna coi propri strumenti: i giocattoli, la televisione. In fondo, la vita e la morte sono cose semplici: «Un pesciolino che sbatte la coda e, poi, non la sbatte più». Le capirebbe anche una bambina.

Commenti

  1. Devo dire che hai ricamato parecchio su questo film! È un'operazione che di solito mi lascia perplesso (quanto ciò che interpretiamo è reale intento comunicativo dell'autore e quanto è nostra proiezione di "ciò che vogliamo sentirci dire"?), però forse per uno come Tarantino è legittima. :)

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