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Un coming out "sui generis"


Avevo pensato di intitolare questa pagina Io e l’omosessualità. Ma l’espressione, pur nella propria immediatezza, sarebbe stata insoddisfacente. Anche perché diffido di etichette monolitiche come “omosessualità” o “eterosessualità”. Ci vengono in soccorso nelle conversazioni quotidiane, ma ritagliano in pezzi di tangram i sentimenti: ossia, cose che non tollerano il ritaglio. Parlare di affettività è difficile, proprio perché le persone vengono incasellate (o si incasellano) in questo tipo di ranghi. Così schierati, per l’appunto, “eterosessuali” ed “omosessuali” mi si sono presentati, undici anni fa, in una puntata di Ciao Darwin.

<<Papà, cosa vuol dire “gay”?>>

<<Vuol dire “uomo a cui piacciono gli uomini”>>.

<<Ah.>>

Mi bastò, almeno per capire discorsi e battute in voga alle scuole medie. In ogni caso, la questione non ebbe veramente importanza, finché non approdai al liceo. Non ero più una bambina; inoltre, ero piena di interrogativi sugli uomini e sulle donne, su cosa costituisse veramente l’identità di genere –dato che gli stereotipi infantili di “maschi” e “femmine” non mi convincevano da tempo. I miei sentimenti verso i ragazzi, benché ancor pieni di esaltazioni fantastiche ed impennate romanzesche, si facevano più concreti. Avevo il bisogno, sempre meno incerto, di amore come comprensione reciproca, totalità, impegno. Cose che difficilmente i miei coetanei si sarebbero sentiti di offrirmi. 

Cominciavo ad avere anche una mia visione, un’ “ideologia dei rapporti”. Vedevo uomini e donne come destinarsi a completarsi nelle proprie differenze, misteriosamente combacianti, sebbene incomprensibili gli uni alle altre. Disse bene qualcuno: “La guerra dei sessi è l’unica in cui i nemici dormano insieme.”

Però, c’erano i gay.

Tutto ciò che sapevo era che, per loro, il magnetismo fra i sessi non funzionava in quel modo. Per di più, il loro legame non si poteva liquidare con la solita spiegazione “zootecnica” (“l’attrazione sessuale serve a far riprodurre la specie”). Si poteva essere felici, senza quel completamento fra i sessi che mi sembrava così vitale? Era più facile comprendersi fra persone dello stesso sesso o (al contrario) c’era più attrito? Cosa significava l’altro sesso per chi non ne era attratto?

            Pareva che nessuno sapesse rispondermi, o che io non sapessi esprimermi. Al massimo, le mie perplessità venivano scambiate per tabù religioso. Ma la mia formazione cattolica, tutt’al più, rafforzava ciò che già sentivo: ossia, che uomo e donna erano fatti per diventare “una carne sola”. Nessuno mi insegnò l’odio in nome di Dio. Quanto all’”abominio” ed al “peccato”, essi erano volontari per definizione. E l’orientamento sessuale non era volontario.

 Il mio fastidio andava, semmai, alla rappresentazione mediatica della questione. Per quanto fossi ingenua a quindici anni, avvertivo che “qualcosa non andava” nell’informazione italiana. Pacs, DiCo, matrimonio gay erano sbandierati insieme a sostantivi astratti, come “libertà” e “progresso”. Ma la “libertà” non era un’informazione ed il “progresso” nemmeno. In più, il tutto era condito dalla denigrazione della cultura cattolica, in cui ero cresciuta. Non proprio l’ideale per stimolare la concordia fra cittadini. Lasciamo stare il buonismo condiscendente, passato per “comprensione” e “apertura mentale”. Pensavo che, se fossi stata lesbica, non avrei sopportato quel tipo di smancerie. Il vero rispetto non è ostentato.

 Imparai che esisteva l’Arcigay, un’associazione ben connotata e dedita a dette tematiche. Tuttavia, mi riconoscevo poco in quegli uomini interi, con le idee bene in fila ed una bandiera da sventolare. La mia era una ricerca interiore, che mirava a capire cosa fosse l’amore e, di riflesso, cosa fossi io. Ogni domanda sull’eros è una domanda su se stessi.

            Tentai letture sull’argomento, anche di psicologia. Cominciai a delineare il ruolo dell’infanzia e della famiglia nella formazione della sessualità. Mi appassionò vedere come non fosse solo un fatto d’ormoni o un meccanismo, come potesse perfino trasformarsi.
Non mi stupì per nulla la famosa canzone di Povia, Luca era gay (2009). Semmai, trovavo un po’ schematica la divisione della storia in un “prima” e un “dopo”. Ma il resto non si discostava molto dalle mie recenti letture. Il messaggio, sostanzialmente, era: “Nessuno dia per scontato se stesso. Ci sono sorprese anche dietro le ‘caratteristiche immutabili’”.

Quando la canzone era stata preannunciata, Aurelio Mancuso aveva rilasciato dichiarazioni di fuoco a La Repubblica. Siccome il testo non era ancora noto, l’avevo trovato un furore prematuro. Meno ancora capivo perché i sostenitori del coming out dovessero opporsi all’analisi di una vicenda umana. Per giunta, come poteva un movimento ritenersi unico interprete d’una realtà complessa? Ciò aveva portato al mio primo ed unico scontro con gli attivisti gay.

Avevo espresso con parole incandescenti le obiezioni di cui sopra e le avevo inviate a quattro quotidiani fra loro diversissimi.

Ne risultarono critiche sommarie; mi si misero in bocca parole che non mi ero mai sognata di dire e ne furon travisate altre. Però, ebbi anche il dono d’una risposta da parte di Dino Boffo (guarda caso, poi “accusato” di omosessualità). In più, nacque un breve ed accorato scambio di e-mail con la madre di un ragazzo gay. Il cuore aperto di quella donna fu la prima vera risposta alle mie inquietudini giovanili. Finalmente, mi fu concesso un dialogo che andasse oltre gli slogan. Ne emerse la quotidianità di un giovane che si fidava della propria famiglia, aveva molti amici con le stesse inclinazioni affettive e desiderava, semplicemente, essere felice in amore. Nelle parole di sua madre non c'era nulla dell'aggressività che avevo sperimentato in molti "dibattiti". Vedevo in quella storia, a linee nette, ciò che avevo cominciato ad intuire: sotto l'etichetta "sessualità", erano poste, in realtà, sfumature impossibili da classificare realmente (come dicevo all'inizio). La stessa polarità uomo-donna era lungi dall'essere netta: a volte, identificazioni diverse ed inclinazioni diverse convivevano nella stessa persona. Cominciavo ad intuirlo anche in me stessa, "maschiaccio" mai pacificato con la propria "femminilità". 

L’altra mano che mi fu tesa fu quella della letteratura. Già conoscevo Saffo ed Oscar Wilde. Poi, in una libreria di Pavia, incontrai l’opera di Delia Vaccarello. I suoi scritti mi permisero di calarmi nell’omoerotismo femminile, che mi riguardava in quanto donna. Ne nacque una corrispondenza fra lettrice e scrittrice che dura tuttora.
Non ho "risposte" verbali alle mie vecchie domande. Le "risposte" sono persone di carne ed opere d'arte: sfaccettate, intuitive, semplicemente ineludibili. Le "contraddizioni" dell'eros sono diventate una presenza familiare. L'amore mi appare come una pulsione a costituire un'unità fra persone distinte, a partire dalle loro inclinazioni spontanee. La felicità sentimentale, di conseguenza, è la realizzazione di detta unità, che (purtroppo o per fortuna) non può seguire alcuna ricetta preconfezionata e deve essere conseguita secondo un percorso fatto di domande su se stessi. 
Pacificatami interiormente, ho potuto interessarmi anche alle istanze "esteriori" (sociali e civili) del movimento LGBT.

Attualmente, ho amicizie recenti fra i ragazzi dell’Arcigay di Pavia. Ho scoperto la rassicurante presenza delle drag queen, che mi hanno fatto capire quanto un uomo possa calarsi nei panni di una donna.

A loro dedico questo mio insolito “coming out”, scaturito dalla sincerità che un’amicizia sempre richiede. Con affetto,


Erica


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